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Lavorare stanca

today25/05/2025 - 18:29 4

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Data di pubblicazione: 25/05/2025 alle 18:29

Maggio sta volgendo al termine, un mese che si apre con la festa dei lavoratori non può terminare senza prendersi un momento per riflettere su una ricorrenza che coinvolge circa una novantina di nazioni di tutti continenti. Anche se non per tutti i paesi coincide la data del festeggiamento, sappiamo che questa data ha a che vedere con quanto successo nel 1886 a Chicago. Il primo maggio e nei giorni seguenti, durante uno sciopero generale dei lavoratori indetto con lo scopo di estendere a tutti gli stati americani il limite delle otto ore lavorative nei contratti di lavoro, ci furono diversi scontri con la polizia in cui morirono molti manifestanti e alcuni poliziotti. Così nacque la ricorrenza del primo maggio e si diffuse in tutto il mondo.

Vale la pena di prenderci un tempo per riflettere su come è cambiato il rapporto degli umani con il lavoro a

partire dall’epoca della seconda rivoluzione industriale, intorno al 1870, quella dell’elettricità del petrolio e della chimica, per intenderci.

Era un’epoca dove non si chiedeva al lavoro di fornire senso alla propria esistenza. Il senso del lavoro, qualsiasi tipo di lavoro, era già dato da sé, per le condizioni di vita degli umani di allora. Era un mezzo, l’unico mezzo, per avere accesso a quella parte dei beni materiali che erano diventati disponibili grazie alla diminuzione dei costi di produzione e quindi dei prezzi al consumo, conseguenza della rivoluzione industriale. Questo era ciò che si chiedeva a qualsiasi tipo di lavoro, in quel tempo. Ma oggi ?

Andiamo a leggere quanto scrivere Davide Etzi nella sua newsletter sulla piattaforma Substack del 7 maggio scorso dal titolo “La voglia di lavorare sta morendo di cause naturali ?”. L’articolo originale è al seguente indirizzo:

https://davideetzi.substack.com/p/la-voglia-di-lavorare-sta-morendo?r=vt52&utm_source=pocket_saves&triedRedirect=true&utm_medium=email

“qualcosa si è rotto nel rapporto tra le persone e il lavoro”.

Davide si presenta come uno psicologo, psicoterapeuta, sociologo e economista comportamentale. Incontrando l’umano come psicoterapeuta Davide osserva:

I setting della psicoterapia e del coaching sono come sismografi sociali: registrano in anticipo le scosse che attraversano la collettività. Sembrano luoghi intimi, ma ciò che accade lì dentro spesso anticipa ciò che accadrà fuori.

E quindi, a partire dai temi portati dai suoi pazienti, arriva a proporre queste considerazioni:

Sto osservando un fenomeno che ha preso forma in modo concreto e nelle conversazioni in studio per tutto il 2024 e nei primi mesi del 2025 l’ho visto pian piano normalizzarsi e mettermi davanti a una verità scomoda ma innegabile: qualcosa si è rotto nel rapporto tra le persone e il lavoro. O meglio, qualcosa è finalmente emerso dopo anni (anzi, decenni) di adattamento forzato a un sistema che semplicemente non funziona più per milioni di persone.

Le neuroscienze e la clinica contemporanea parlano chiaro: la mancanza di scopo, la disconnessione emotiva e l’impossibilità di vedere un impatto positivo del proprio contributo generano ciò che tecnicamente possiamo definire come una “iperattività dopaminica disfunzionale”.

In termini più accessibili: il cervello rincorre costantemente stimoli che offrono una gratificazione immediata ma superficiale (email, task, riunioni, like sui social), senza però costruire un’identità solida o un benessere autentico.

Vivere per il futuro o per il presente ?

A questo punto facciamo riposare Davide e concentriamoci su questa idea della “iperattività dopaminica disfunzionale”. Perché disfunzionale?

Prendiamo un testo pubblicato in Italia nel 2023 che cerca di spiegare come la società contemporanea sta favorendo un tipico squilibrio tra neurotrasmettitori del sistema nervoso umano: “Dopamina, la chimica dei desideri”. Gli autori sono Daniel Lieberman e Michael E. Long. Un Paleoantropologo che insegna Biologia evoluzionistica a Harvard e un letterato con una solida cultura scientifica.

Nel testo si distingue la molecola della dopamina da un gruppo di neurotrasmettitori chiamato H&N cioè Here and Now, ovvero “qui e adesso”. Sono la Serotonina, l’Ossitocina, le Endorfine, e gli endocannabinoidi, ovvero la versione cerebrale della marijuana. Uno di questi viene chiamato “anandamide” perché Ananda in sanscrito significa beatitudine o estasi. Quindi, le Here and Now, nel loro complesso, danno piacere tramite sensazioni ed emozioni. Ma anche si associano alle esperienze di soddisfazione profonda e duratura che si possono trovare nelle relazioni umane stabili.

Al contrario l’amore passionale è dopaminergico. Gli autori scrivono:

“I circuiti dopaminergici non processano l’esperienza nel mondo reale ma solo le possibilità future e immaginarie. La dopamina accende l’immaginazione, generando visioni di un roseo futuro.”

Quindi la dopamina premia lo sforzo immaginativo, evolutivo, previsionale, motivazionale. La dopamina guarda al futuro. Ma occorre trovare un equilibrio tra presente e futuro altrimenti si rischia il malessere.

Una questione di equilibrio

Così proseguono gli autori:

La dopamina e i neurotrasmettitori H&N si sono evoluti per lavorare insieme. Spesso agiscono in opposizione tra loro ma questo contribuisce a preservare la stabilità tra cellule cerebrali in costante attivazione. In molti casi però, dopamina e H&N perdono il loro equilibrio, sbilanciandosi in particolare verso la dopamina, che è dove ci spinge il mondo moderno, per tutto il tempo. Troppa dopamina può portare a infelicità produttiva mentre troppi H&N possono portare a una felice apatia: il dirigente malato di lavoro contro il fumatore di erba che vive in uno scantinato.

Possiamo osservare che colui che agisce prevalentemente sotto effetto della dopamina sposta il suo piacere e interesse nel futuro immaginato da realizzare, ma può avere esperienza di profonde cadute di umore nel presente da vivere.

Nell’articolo “Re Elon e i cavalieri del Santo Graal” abbiamo tratteggiato il profilo di quei tycoons americani che sotto la formula magica TESCREAL, tutta orientata verso il plusvalore tecnologico del futuro umano convivere, probabilmente vivono in un eccesso dopaminergico.

“Faccio uso di ketamina per migliorare le mie performance manageriali”

disse Elon Musk circa un anno fa. Ma è noto che la ketamina svolge un’azione antidepressiva anche perché modula la trasmissione dopaminergica. Forse, un tentativo di Elon per ristabilire un equilibrio di neurotrasmettitori entrato in crisi ?

Il benessere ha trasformato il senso del contratto sociale

Ma torniamo all’articolo di Davide Etzi. Ed ecco il punto cruciale: la sicurezza economica non è più sufficiente a garantire motivazione duratura come lo era per i lavoratori della seconda rivoluzione industriale. Il benessere raggiunto, grazie ai successi indiscutibili del progresso, ha sottratto valore alla dipendenza dalla dimensione materiale ma, in questo modo, ha anche eroso il senso del rapporto con il lavoro nella contemporaneità. Ecco le sue parole:

Il nostro cervello non riesce più a sostenere questo compromesso tra salario e sofferenza. La dopamina generata dalla gratificazione economica non è più sufficiente a compensare il cortisolo (l’ormone dello stress) che viene prodotto quotidianamente in ambienti di lavoro tossici.

Le persone stanno cominciando a scegliere il benessere mentale come priorità assoluta, anche a costo di sacrificare status sociale, entrate economiche o prospettive di “carriera” tradizionale.

Il lavoro è diventato, per una percentuale crescente di persone, un luogo in cui si è costretti a fingere di essere “ok” mentre ci si sgretola dentro. E questo meccanismo, protratto nel tempo, diventa semplicemente intollerabile per la psiche umana.

Il lavoro, nella sua forma attuale, viene sempre più percepito come un meccanismo di sfruttamento emotivo abilmente travestito da opportunità di crescita personale. Lo chiamiamo burnout, ma è molto più profondo: è un esaurimento di senso.

Viviamo ancora, nel 2025, all’interno di un frame mentale tipico del dopoguerra industriale, in cui produttività equivale a valore, occupazione a dignità, e fatica a moralità. Ma oggi questa equazione è saltata.

Il sogno di Keynes

Figlio della seconda rivoluzione industriale, il britannico John Maynard Keynes viene considerato uno dei più grandi economisti del mondo.

Nel 1930, in piena Grande Depressione, pubblica un breve saggio intitolato “Economic Possibilities for our Grandchildren”, ovvero ”le possibilità economiche per i nostri nipoti”. In esso immagina che, nel giro di cento anni, l’umanità avrà risolto il suo “problema economico” grazie al progresso tecnico e all’accumulazione del capitale. Il lavoro necessario per vivere sarà ridotto a poche ore settimanali, ne basteranno 15, e le persone potranno finalmente dedicarsi al tempo libero, alla bellezza, all’amicizia, alla contemplazione. Il capitalismo con la sua avidità, secondo Keynes, sarà servito solo come mezzo temporaneo per superare la scarsità; poi si farà da parte. Il sistema economico del futuro non sarà basato sull’accumulazione ma sulla qualità della vita.

A meno di dieci anni dal traguardo immaginato da Keynes, diventa evidente che molte sue previsioni si sono rovesciate nel loro contrario. Nonostante un progresso tecnologico impensabile nel 1930, il lavoro si è trasformato ma non si è ridotto ovunque. La povertà non è scomparsa e le disuguaglianze globali sono aumentate perché la ricchezza non si distribuisce automaticamente. Il sistema economico globale ha continuato a produrre crisi cicliche con guerre e instabilità. Il culto dell’accumulazione, della competizione e del consumo non è stato ridimensionato, anzi spesso è celebrato. Le persone non sono più sfruttate da padroni esterni, ma da se stesse. L’umanità non è più oppressa dalla necessità materiale, ma dalla pressione psichica del dover essere performanti, sempre. La ricchezza materiale non si è tradotta in benessere interiore. Il tempo liberato dalla tecnica non ha prodotto libertà, ma una nuova forma di prigionia invisibile: l’auto-sfruttamento. Il sogno di Keynes si è trasformato in un paradosso.

L’incubo di Byung-Chul Han

Questo paradosso è stato descritto con lucidità dal filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han. Nei suoi scritti, in particolare La società della stanchezza e Psicopolitica, di cui abbiamo già accennato molte volte nei precedenti articoli, Han mostra come la società contemporanea abbia superato il modello disciplinare basato sulle sanzioni, per entrare in una società della prestazione.

In questo nuovo paradigma, il soggetto non è più represso da norme esterne, ma è indotto a sfruttare se stesso in nome della libertà. Non c’è più un padrone che impone, ma un ideale interno che costringe. Il soggetto è diventato un “progetto”, una start-up di se stesso, sempre incompleto, sempre in fase di miglioramento. La conseguenza è la stanchezza esistenziale, l’incapacità di fermarsi, la dissoluzione del riposo, la crisi del desiderio. La libertà economica immaginata da Keynes si è convertita in una forma sofisticata di autocontrollo psichico.

Keynes aveva immaginato che, una volta superato il bisogno materiale, l’uomo avrebbe potuto dedicarsi all’essere, alla saggezza, alla cultura, all’affettività. Ma questo richiede un soggetto capace di abitare il tempo, di sostare, di accettare il limite. La società della prestazione ha invece prodotto un soggetto che si sente sempre in ritardo, inadeguato, compulsivamente obbligato ad aggiornarsi per non diventare obsoleto.

Il sogno di Roosevelt

Il 6 gennaio 1941, poco meno di un anno prima di entrare in guerra a fronte dell’attacco di Pearl Harbour, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt pronunciò davanti al Congresso il celebre discorso sulle Quattro Libertà che diventò una solida testimonianza storica verso la teorizzazione del capitalismo moderno. In esso si tracciava una visione del mondo futuro fondata su quattro pilastri: libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno (freedom from want) e libertà dalla paura.

Tra queste, la “freedom from want” – la libertà dal bisogno materiale – era il nucleo più vicino all’utopia keynesiana. Roosevelt immaginava un mondo in cui nessuno avrebbe sofferto la fame, la povertà o l’umiliazione dell’indigenza. Ma anche questo sogno, oggi, appare mancato o almeno incompiuto.

In questo quadro, la libertà dal bisogno non ha portato a una liberazione della persona, ma a una riarticolazione degli obblighi nei codici della prestazione. Il soggetto che non deve più temere la miseria è ora ossessionato dall’insufficienza di sé. Non si ha più fame di pane, ma di senso, di riconoscimento, di identità.

Roosevelt e Keynes hanno condiviso una fiducia nel progresso come via alla giustizia, alla dignità e alla liberazione dal bisogno come condizione per una nuova umanità. Ma il loro errore non è stato sul piano economico, bensì su quello antropologico.

L’incubo dell’Intelligenza artificiale

Ma torniamo all’articolo di Davide Etsi ascoltando ancora le sue parole:

“Non ho paura che l’IA mi rubi il lavoro. Ho paura che metta in evidenza quanto poco senso avesse il mio lavoro fin dall’inizio.”

Questa frase, mi è stata detta da un paziente qualche sessione fa e racchiude perfettamente il paradosso che stiamo vivendo.

L’intelligenza artificiale non è solo una rivoluzione tecnologica: è un potente catalizzatore di una crisi esistenziale. Quando un algoritmo può scrivere un’email commerciale, analizzare un report finanziario o diagnosticare una malattia meglio di noi, cosa rimane della nostra unicità professionale? Cosa ci definisce come esseri umani al lavoro?

Le nuove generazioni (e non solo loro) non stanno rifiutando il lavoro in sé. Stanno rifiutando il lavoro senza etica, il lavoro senza impatto visibile, il lavoro che divora ogni spazio di tempo umano. Rifiutano il cinismo delle organizzazioni che parlano di “purpose” e poi trattano i lavoratori come ingranaggi sostituibili di una macchina che punta solo al profitto.

E’ arrivato il momento della solita profezia letteraria. Chi fu l’umano che aveva previsto tutto questo in tempi non sospetti ?

Nel libro di poesie “Lavorare stanca” di poco successivo al discorso di Keynes, Cesare Pavese ritrae una quotidianità dura, muta, priva di redenzione, in cui il lavoro non è più vocazione né orgoglio, ma fatica alienante, ripetizione senza speranza. Il paesaggio è spesso agricolo, ma il sentimento è già urbano, moderno, esistenziale. In Pavese il lavoro ha perso il suo legame con la terra, la comunità, il mito. Keynes sognava che cento anni dopo gli umani avrebbero lavorato tre ore al giorno, e il resto del tempo sarebbe passato a passeggiare, a scrivere lettere, a fare l’amore. Invece sono lì, ad aggiornare il profilo, a reinventarsi, a sentirsi sempre troppo poco.

E’ la rottura del patto tra fatica e senso a cui Pavese aveva già accennato.

L’economia della scarsità di senso

Non basta liberare il tempo, bisogna liberare il senso.

Il significato del proprio fare. In tempi di scarsità di risorse, oppure di guerra, il significato del proprio fare si trae facilmente perché è conseguenza diretta di queste due condizioni. Condizioni nelle quali non c’é spazio per il nonsenso, per la crisi esistenziale. Bisogna sopravvivere. Invece, negli angoli del mondo dove la scarsità e la guerra vengono messe da parte, nasce un vuoto di senso che nella modernità viene riempito dal super investimento sull’individuo, sull’Io, sull’immagine di sé. Sul mito della crescita continua: dell’economia, delle ricchezze, delle esperienze, delle conoscenze, della tecnologia, del progresso. Ciò inserisce l’umano nella società della prestazione.

Keynes immaginava la fine dell’avidità come motore sociale. Ma l’avidità si è interiorizzata: non è più economica, è psichica. Non è più solo al servizio della materia ma anche al servizio dell’Io. Il pericolo non viene più da un ordine esterno, ma da una voce interna, seduttiva, che impone la prestazione come forma di salvezza e significato. La stanchezza, l’ansia, le dipendenze, i disturbi alimentari e l’iperconnessione non sono solo disagi: sono forme in cui il soggetto risponde a una richiesta silenziosa ma totalizzante di valere, di esserci, di riuscire.

Definire l’intelligenza naturale prima ancora di quella artificiale

Per un’alternativa alla deriva verso questo tipo di società occorre immaginare una contro-economia dell’esistenza, fondata sulla cura di sé partendo dalla cura dei sistemi viventi in cui questo sé si forma e prende posto: contro-economia perché questa cura può risultare antieconomica in senso stretto. Inoltre, fondata sulla capacità di fornire una narrazione degli eventi per tentare una significazione condivisa che dia conto della inesausta domanda di senso che gli umani portano dentro. Infine, sul diritto al fallimento, inteso come riconoscimento del limite, della parzialità di ogni sforzo umano. In altre parole, una società che promuova una contro-economia. Un’utopia direte voi.

No affatto, una società di questo tipo è già realizzata, funziona benissimo e vive tutto intorno le case degli umani. In questa direzione si inserisce la potente suggestione contenuta nel libro del 2019 “La nazione delle piante” di Stefano Mancuso, neuroscienziato che insegna Etologia Vegetale all’Università di Firenze, super esperto sul “comportamento” delle piante. Circa il suo pensiero, da Wikipedia leggiamo:

L’intelligenza – nota Mancuso – è stata a lungo considerata “ciò che ci distingue dagli altri esseri viventi”, ma se la risoluzione dei problemi è una buona definizione di intelligenza, allora dobbiamo riconoscere che le piante hanno sviluppato un’intelligenza che consente loro di svilupparsi e rispondere alla maggior parte dei problemi che incontrano nella loro vita.

La nazione delle piante

Nell’ultimo capitolo di questo testo, l’autore invita l’umanità a ripensare il proprio futuro imparando dalle piante, che da milioni di anni prosperano senza dominare, senza guerre, senza consumo distruttivo di risorse. Le piante cooperano, si distribuiscono, si adattano. Esistono come intelligenza diffusa, solidale e non gerarchica. Per arrivare a queste conclusioni Mancuso denuncia il fondamentale fraintendimento del darwinismo. Ascoltiamo le sue parole:

“Crediamo che la cosiddetta legge della giungla sia il motore attraverso il quale si selezionano i migliori, ossia quelli che hanno il diritto di comandare perché hanno dimostrato con i fatti che ne hanno le capacità.

E’ del tutto improprio che si citi la Teoria dell’evoluzione di Darwin a sostegno di questa idea.”

“….La Teoria dell’Evoluzione sostiene la sopravvivenza del più adatto, non del migliore, non del più forte, del più intelligente, del più spietato, del più grosso. Nulla del genere. Darwin non redige mai una lista delle caratteristiche che deve possedere il più adatto, poiché è impossibile prevederle. Queste infatti non sono mai le stesse, dipendendo dalla infinita variabilità dell’ambiente e delle circostanze.”

La volgarizzazione del pensiero di Darwin, in cui il migliore si identifica con il più forte e il più astuto e la lotta per la sopravvivenza diventa una lotta senza pietà, la dobbiamo ad alcuni discutibili interpreti della sua opera, i cosiddetti darwinisti sociali.

Tra questi, per il filosofo e biologo Thomas Henry Huxley…

…la sopravvivenza del più adatto viene trasformata in pura competizione in cui sopravvivono i più astuti e i più forti….La guerra di ciascuno contro tutti è lo stato normale dell’esistenza.

…Questa primitiva e brutale versione del mondo è diventata con il tempo talmente diffusa da essere percepita come reale. Sentir parlare di legge della giungla in ambiti quali i mercati economici, la politica delle nazioni, l’ambiente di lavoro o addirittura lo sport e la scuola, è ormai un luogo comune…quasi l’unica maniera di intendere le relazioni tra esseri viventi.

Eppure in tutto ciò c’è pochissimo di vero. Darwin si è guardato bene dall’enunciare corbellerie simili.

Il mutuo appoggio come fattore di evoluzione

Mancuso fa notare che il vero principio evolutivo indicato da Darwin non è la legge del più forte, ma quella del più capace di convivere. Nel 1902 il filosofo e scienziato Peter Kropotkin dava alle stampe “il mutuo appoggio come fattore dell’evoluzione”. Un celebre trattato nel quale sosteneva che era la cooperazione e non la competizione, il fattore determinante del successo delle specie e della loro evoluzione.

Oggi la si chiama “simbiosi”. Risalgono al 1967 i primi studi che dimostrano che una delle principali fonti di novità evolutive è da considerarsi la formazione di simbionti tra diversi tipi di vivente e non la loro competizione. In questi studi si mostra come alcuni tipi di batteri, mettendo in comune diverse caratteristiche circa la fotosintesi e la respirazione, hanno dato luogo alla formazione degli antenati delle cellule eucariote da cui dipendono tutte le forme viventi di organismi pluricellulari.

Ma, in particolare, le piante sono le maestre indiscusse del mutuo appoggio perché annoverano tantissimi casi del genere, probabilmente legati alla loro impossibilità di spostarsi dal luogo in cui sono nate. Non potendosene andare in giro a cercare ambienti o compagni migliori, una pianta deve per forza ottenere il massimo dalla sua convivenza con i suoi vicini. Costruire comunità stabili e cooperanti con cui condividere lo spazio vitale diventa una necessità. Ma la capacità di convivere si fonda sulla capacità di cooperare. La cooperazione è la forza con cui la vita prospera e la nazione delle piante la riconosce come il primo strumento del progresso delle comunità.

La competitività non è l’unico motore della vita. È tempo di correggere la visione predatoria del vivente alla radice della società della prestazione.

Buon Universo a Tutti !

Scritto da: mind_master

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