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    Radio K55

Psicologia

Disamistade

today25/10/2023 48

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Nell’articolo di due settimane fa, Ammazzatoi e dintorni , abbiamo riflettuto sulle parole di Catello Romano, killer di Camorra, che ha usato la sua tesi di laurea, ottenuta al suo 14esimo anno di carcere, per parlare in modo autocritico della sua scelta malavitosa.

Nella sua tesi Romano racconta che quando era giovanissimo prese a modello la figura di Raffaele Cutolo in occasione della visione del film “il Camorrista” di Giuseppe Tornatore.

Il tema si ripropone oggi perché al festival del Cinema di Roma, il 26 ottobre sarà presentata la fiction “Il Camorrista – La serie” che fu girata contestualmente al suddetto film, ma mai andata in onda prima. 

Di pochi giorni fa sono le dichiarazioni critiche sulla decisione di mettere in circolo questa fiction da parte di Graziella e Claudio, due figli di vittime della Camorra di Raffaele Cutolo. 

Ecco le parole di Graziella Ammaturo, figlia del vicequestore Antonio, ucciso, con il suo autista, a Napoli il 15 luglio del 1982: “Quando si trattano argomenti come questo c’è il rischio, purtroppo, che una platea di persone senza cognizione storica, come può essere quella giovanile, idealizzi degli esempi di vita negativi”

Ed ora quelle di Claudio Salvia, figlio del vicedirettore del carcere di Poggioreale Giuseppe, che pure il 14 aprile 1981 ha pagato con la vita il suo coraggio di opporsi al ‘camorrista’: “Indignato. Sbigottito. Annichilito da una notizia che riapre ferite mai chiuse e quel dolore che cerco di lenire quotidianamente portando avanti una missione sociale di legalità”

Entrambi poi fanno notare come si fanno i film sui capi di mafia ma nulla si sa della vita di figure come quelle dei loro padri, molto più vicina ad un esempio di comportamento eroico di quanto non lo fossero le gesta dei loro assassini.

Il tema di questo ribaltamento di valori è ben espresso dal genio di Fabrizio De André, che nell’unica canzone in napoletano in cui si avventura, narra splendidamente l’infatuazione di Pasquale Cafiero, un membro della polizia penitenziaria di Poggioreale, per “Don Raffaé”, il suo eroe di riferimento, ovvero Raffaele Cutolo.

 “Nei film, la violenza è figa. Mi piace” 

Così disse il grande Quentin Tarantino. E’ probabile che non ci sia un motivo solo per cui la violenza attira, ma in ogni caso per oggi limitiamoci a riflettere sull’ipotetica connessione tra violenza narrata e agita, così come in fondo Catello Romano sostiene nella sua tesi autobiografica. 

C’è una connessione, e di quale genere, tra i racconti e le immagini di violenza che vengono intese come esempi di forza, successo, potere, e la violenza realmente agita? Possono le prime influenzare la seconda ?

Nei numerosi studi e ricerche che si sono accumulate negli ultimi 50-60 anni circa l’esposizione a contenuti violenti nelle narrazioni video e non solo, sono sostanzialmente state studiate due ipotesi facendo ricerche su gruppi di popolazioni soprattutto giovanili, ma appartenenti a diverse categorie socio economiche. 

1) una desensibilizzazione verso gli atti violenti e le loro conseguenze. 

2) un’identificazione in un determinato personaggio di successo di cui si desidera imitare lo stile violento di autoaffermazione.

Ci si abitua alla violenza ?

Il primo caso nasce dalla sovrapposizione di livelli tra dimensione virtuale e reale a cui consegue una minore inibizione nel passare all’atto violento. Questo effetto è stato riscontrato ma solo su una minoranza di soggetti studiati. Solo su quelli che appartenevano a gruppi di persone sovraesposte ad immagini violente. Per esempio, che facevano un uso ripetitivo e massivo di video violenti di tutti i generi e formati. Come se si fosse danneggiata la distinzione tra finzione e realtà, emerge in questi soggetti un maggior distacco emotivo nell’esposizione alla violenza rispetto al resto della popolazione studiata. Quest’ultima invece, quella che fa un uso importante ma comunque “normale” dei video violenti, risulta mediamente competente nel distinguere con chiarezza tra violenza reale e violenza narrata. Stabilire un nesso causale però può essere un azzardo. Ovvero pensare che la violenza vista aumenti la violenza agita non è affermabile con certezza. Perché il sottogruppo di persone che si sovraespongono ai video violenti potrebbe già essere di suo un tipo di persone con un profilo psicologico più propenso nel passare alla violenza agita rispetto ad altre popolazioni. Quindi ciò che sembra una causa potrebbe in realtà essere un effetto di un’altra causa ancora nell’ombra.

l’effetto Don Raffaè

Il secondo caso è quello narrato da Catello Romano come esempio di cui abbiamo già scritto. 

Anche questa ipotesi è stata riscontrata vera solo per una minoranza di soggetti studiati. In genere appartenenti a condizioni economiche svantaggiate, ma con eccezioni. Per esempio Romano stesso riporta di essere cresciuto in una famiglia normale quanto a valori morali e condizioni socioeconomiche. Non sempre la causa della devianza verso la violenza può essere rintracciata nelle caratteristiche culturali e sociali della famiglia di origine. Nell’effetto Don Raffaé è più difficile comprendere i nessi con gli elementi causali che portano ad un’identificazione con il cattivo.

La conclusione di questi studi è che comunque solo alcuni soggetti risultano sensibili alle influenze negative della diffusione frequente di immagini di violenza. Si parla genericamente di “soggetti disadattati” o “affetti da frustrazioni” senza poter veramente approfondire quali aspetti espongano al rischio di venire influenzati negativamente perché la materia è molto complessa. 

La scelta di un pensiero rigidamente lineare

Analizzando i modelli culturali a cui appartengono le persone che fanno scelte di una vita sistematicamente violenta emerge una caratteristica comune che non riguarda necessariamente eventuali traumi del passato ma piuttosto un determinato profilo psicologico, un determinato assetto mentale. Si tratta di una mente che si organizza operando sempre una distinzione netta tra poli opposti. Buono e Cattivo, giusto e sbagliato, sei con noi oppure sei dei loro. Ma se il mondo è bianco e nero vuol dire che non esistono sfumature, non esistono grigi. Qualsiasi concessione al grigio viene vista come una debolezza. Un uomo che non è né bianco né nero è infatti un “uomo di merda”. Un “infame” invece, è colui che reputato essere dei nostri finisce per stare con loro. Dalle parole che si usano con più frequenza si deduce il tipo di organizzazione mentale sottostante. Nonostante le efferatezze compiute si tratta però di persone che hanno un forte ideale di giustizia, non convenzionale certamente, la loro giustizia. Ma comunque quello che ci interessa è che si tratta di un ideale molto rigido. Bianco o nero. Viene chiamato “pensiero dicotomico” e considerato una forma di distorsione cognitiva nell’interpretare la realtà.

Diagnosticare che passione !

Se fossimo psicologi diremmo che questa forma di pensiero è tipica di un certo tipo di disturbo di personalità. “Borderline” credo che si chiami. Ma così facendo, etichettando come disturbo questo tipo di assetto mentale, finirebbe nell’ombra un elemento molto più interessante da riflettere. Se è un disturbo di personalità perché questa forma di pensiero sembra essere contagiosa ? Perché sembra propagarsi anche alle persone per cui questa diagnosi non può essere fatta ? Infatti, nell’articolo della settimana scorsa, Trova le differenze, abbiamo introdotto il termine schismogenesi per provare a spiegare un aspetto caratteristico della ennesima crisi tra Israele e Palestina iniziata il 7 ottobre scorso.

Abbiamo qui parlato dell’effetto contagio che si verifica nei processi schismogenetici tra le diverse parti in causa e che “esonda” trascinando con sé anche gli osservatori neutrali che finiscono per ribadire queste modalità fin nei dibattiti pubblici in cui vengono coinvolti. Quindi il pensiero dicotomico, caratteristico di ogni processo schismogenetico, si può contagiare. Ovvero, non è appannaggio di un solo tipo di organizzazione mentale, ma appartiene, almeno come potenzialità, ad ogni umano terrestre. 

Arcaismi cerebrali

Una ragione per spiegare l’effetto contagio sta nell’osservazione che il cervello umano porta con sé la storia della sua evoluzione. Il neuropsichiatra Paul McLean negli anni ’70 ha proposto una divisione in tre diverse aree del cervello sulla base della psicologia evoluzionista. La prima parte, il cervello rettiliano, che coincide con le strutture cerebrali più interne, si chiama così perché simile a quello dei rettili per anatomia e funzioni. Ovvero, bisogni fisiologici, lotta e fuga, principalmente. La seconda parte è costituita dal cervello limbico, focalizzato sulle emozioni. La terza parte dalla corteccia cerebrale, linguaggio, pensiero critico, logica razionale. Le tre parti cerebrali lavorano in modo integrato quando le cose vanno bene. In certe condizioni difficili, diciamo, una di queste può prendere il sopravvento. 

Nella tesi di Catello Romano c’è un punto in cui racconta che, in una sparatoria dove a lui toccava uccidere una persona, finisce per ammazzare anche un’altra persona che non c’entrava niente e che poteva essere risparmiata: “L’evento più violento, traumatico, irrimediabile della mia vita”, scrive, “non so perché, non l’ho capito e non me ne capacito ancora, ma sparai anche a lui”. Ecco un esempio di funzionamento cerebrale in cui l’attività corticale, la più recente nella storia evolutiva delle strutture cerebrali, viene esclusa. Lo stesso Romano è però capace di laurearsi con 110 e lode una quindicina di anni dopo e quindi dimostra che la sua attività corticale è perfettamente funzionante, ora. Quindi, il problema riguarda il fatto che ogni essere umano può funzionare a vari livelli di integrazione funzionale oppure di non integrazione funzionale. Il tipo di pensiero espresso rivela il modo in cui le parti di cervello più arcaiche si integrano con quelle più recenti. 

L’insostenibile complessità dell’essere 

Non sappiamo con certezza se dietro queste forme arcaiche che caratterizzano l’uso della violenza in modo sistematico ed efferato ci siano traumi che possano fornire spiegazioni convincenti. Questa è la tesi de “il Padrino” di Mario Puzo, che racconta della schismogenesi tra famiglie mafiose. A partire da un trauma, si possono scalare i vertici della piramide mafiosa, quasi per caso, quasi controvoglia. Ma allo stesso modo delle faide tra famiglie mafiose abbiamo visto su più larga scala esempi come USA e URSS, Israele e Palestina, Spagna e Catalogna, Sinn Fein e Unionisti, Sciiti e Sunniti. Sono vicende che hanno radici storiche molto differenti ma l’assetto conflittuale schismogenetico, li fa assomigliare tutti.

E’ quindi evidente che non si tratta di casi individuali ma che ci sono forme di pensiero dicotomico collettivo in cui i singoli individui si trovano immersi perché si contagiano l’un l’altro e che portano a quel particolare modo di significare la realtà in termini ultra polarizzati. Lotta o fuga, bianco o nero, in una visione bidimensionale, senza profondità.

 La complessità del mondo diventa troppo faticosa da portare sulle spalle, oppure in braccio come nella scultura di  Andrea Giorgi, qui a destra.

Il lavoro del pensiero per distinguere le sfumature, per trovare l’errore del buono e la verità del cattivo è troppo complesso in certe condizioni e culture. Meglio semplificare e convincersi di stare sempre dalla parte dei buoni. Se è riuscito a farlo persino Matteo Messina Denaro, che ancora in punto di morte continuava a sostenere la giustizia e la bontà di tutte le sue scelte, lo può fare chiunque per molto meno. 

Nella violenza il presente determina molto più del passato

Attualmente tutti i media si sono lanciati nella gara di ricostruire la storia di Palestina e Israele, per interpretare le cause della violenza del presente. Ma può essere fuorviante, se non si riconosce in questo effetto contagio tra forme di organizzazioni mentali arcaiche una causa importante che agisce nel presente. Un contagio cui tutti partecipano, o almeno molti.

In conclusione, non abbiamo raggiunto una prova diretta che la violenza rappresentata dai media aumenti quella agita. Ma abbiamo il forte sospetto che i media, nella ricerca del sensazionalistico a tutti i costi, contribuiscano fortemente a rilanciare l’effetto contagio del pensiero dicotomico, così come Graziella e Claudio indirettamente ci ricordano. 

Sono tutte ugualmente “Disamistade” direbbe De André:

… Due famiglie disarmate di sangue

Si schierano a resa

E per tutti il dolore degli altri

è dolore a metà

… Che la disamistade

Si oppone alla nostra sventura

Questa corsa del tempo

A sparigliare destini e fortuna

Che ci fanno queste anime

Davanti alla chiesa

Questa gente divisa

Questa storia sospesa…

Sostituite  “famiglie” con  “popoli” e funziona uguale. 

Buon Universo a Tutti.

Written by: mind_master

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