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Mostro di Firenze, ex magistrata: “Fu femminicida seriale, odiava le donne”

today22/10/2025 - 11:19 3

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Data di pubblicazione: 22/10/2025 alle 11:19

(Adnkronos) – “Quella del Mostro di Firenze non fu solo una sequenza di omicidi seriali, ma un vero e proprio atto di odio profondo e patologico verso le donne. Un femminicidio ripetuto, anche se allora, più di 40 anni fa, non lo chiamavamo così. L’obiettivo era la donna, il cui corpo veniva, se possibile, mutilato e sfregiato, mentre l’uomo veniva eliminato soprattutto in quanto ostacolo”. L’ex magistrata Silvia Della Monica è stata una figura chiave nella primissima fase dell’inchiesta sul serial killer mai identificato, autore di otto duplici omicidi commessi tra il 1968 e il 1985 nei dintorni di Firenze.  

Da sostituto procuratore della Procura di Firenze fu tra i primi a capire che la scia di sangue degli anni Ottanta affondava le radici nel primo delitto del 21 agosto 1968. Fu lei a ricevere, nel settembre 1985, l’anonima busta contenente un lembo di seno della vittima francese Nadine Mauriot, l’ultima della lunga e inquietante catena di delitti. Un macabro messaggio, che riapriva simbolicamente la sua connessione con un’indagine che aveva già lasciato. 

Oggi, a distanza di quarant’anni, la nuova serie ‘Il Mostro’ di Stefano Sollima – distribuita da Netflix – riaccende l’attenzione su quella stagione cupa. E Della Monica, con discrezione, ha accettato di commentare pubblicamente l’opera del regista che ha già firmato i successi televisivi di ‘Romanzo criminale’, ‘Gomorra’ e ‘Suburra’, avendo avuto l’opportunità di visionare i quattro episodi realizzati. 

“Sollima è stato molto attento, ha ricostruito bene quel periodo, con precisione. Io ho solo risposto a qualche domanda tecnica, niente di più – premette Della Monica intervistata dall’Adnkronos – Ma ho apprezzato che non abbia mai cercato di spettacolarizzare l’orrore e la sofferenza, con grande rispetto delle vittime. Il suo lavoro parte da un momento investigativo che col tempo era stato un po’ accantonato, ma che aveva messo a nudo l’origine della vicenda: il collegamento con il duplice omicidio del 1968, la stessa pistola Beretta calibro 22 usata nei diversi delitti anche se mai ritrovata, la pista sarda e soprattutto la violenza misogina che permeava tutto”. 

Secondo Della Monica, è proprio l’ambiente “squallido e patriarcale” che Sollima riesce a rendere in modo efficace. Un contesto in cui “le donne non avevano alcun valore, ridotte a oggetto. Una cultura del dominio maschile feroce, radicata e silente”. Una rappresentazione che, per l’ex magistrata, va oltre la cronaca giudiziaria. “È una lettura storica e sociale – sottolinea – che restituisce dignità alle vittime, senza morbosità”. 

Eppure, per chi come lei ha vissuto quegli anni da protagonista, la visione della serie Netflix porta inevitabilmente a riflettere sulle difficoltà investigative dell’epoca. “Lavoravamo con strumenti che oggi sembrerebbero preistorici. Niente archivi digitali, niente Dna, nemmeno l’idea di isolare una scena del crimine era scontata. E poi, le intercettazioni? Un’impresa”. 

Della Monica entrò nel caso nel 1981, affiancando un collega nella gestione di un duplice omicidio, mentre già si occupava di criminalità organizzata. “Fui la prima donna magistrato nella Procura di Firenze, e, probabilmente, nell’intero distretto della Corte d’Appello. Seguii in particolare il caso di Baccaiano, il delitto avvenuto il 19 giugno 1982, e in quella circostanza chiesi ai familiari di autorizzare una ricostruzione mediatica, e concordai con la stampa di dare la notizia che il ragazzo era sopravvissuto e aveva avuto il tempo di fornire indicazioni agli inquirenti, Speravo in una reazione di chi aveva commesso il delitto. In effetti giunse una telefonata sospetta ma non fu possibile registrarla e svilupparla per le difficoltà che all’epoca presentavano le intercettazioni”. 

La pista sarda – quella che ipotizzava il coinvolgimento di un gruppo di uomini provenienti dalla Sardegna, legati da vincoli familiari e da un codice patriarcale violento – rimane, a suo giudizio, una chiave ancora oggi importante: “Per avere consentito il collegamento dei successivi omicidi con quello del 1968 e soprattutto con la pistola calibro 22, la stessa arma anche nei successivi omicidi. Ma l’arma, purtroppo, non fu mai trovata. Indagando su questo caso, vi era duplice preoccupazione: fermare l’autore di questi terribili delitti, dando una risposta alle famiglie delle vittime e ad una Toscana terrorizzata, ma anche agire con sempre maggiore. attenzione e prudenza perché ad ogni arresto di un possibile sospettato negli anni ’80 seguiva inevitabilmente un altro duplice omicidio. Quindi trovare l’arma era fondamentale”.  

E da lì nacquero divisioni investigative. E fu per questo – per divergenze sull’arresto di alcuni sospettati avvenuto mentre era all’estero per indagini di criminalità organizzata negli – che decise di lasciare le indagini. “Non condividevo l’arresto di Mele e di Mucciarini. Soprattutto mancava, in una situazione indiziaria immutata, il ritrovamento della pistola. E temevo che potesse avvenire un nuovo duplice omicidio. In quel periodo avevo anche da seguire altre inchieste internazionali di criminalità organizzata e mi sembrò più opportuno farmi da parte, in sordina, senza creare tensioni tra gli inquirenti”. 

Eppure, la storia tornò a bussare alla sua porta in modo clamoroso, proprio nel 1985, con la lettera anonima contenente la parte del corpo di Nadine Mauriot: “Un messaggio diretto, quasi personale. Ma io cerco sempre di attenermi ai fatti. In quel momento fui costretta a rientrare, anche se non desideravo farlo. Comunque era un messaggio macabro che non mi sorprese e che avevo ipotizzato come possibile sfida verso gli inquirenti, in particolare a Piero Vigna, che io avevo coinvolto nelle indagini, per le sue indiscusse capacità investigative. Anche Vigna interpretò questo messaggio, corredato da un lembo di seno della vittima, come un ulteriore sfregio alle donne e, in particolare, una sfida verso un magistrato donna”. 

Alla domanda su quale sia il suo giudizio complessivo sulla ricostruzione Netflix, Della Monica risponde con equilibrio: “Manca, se non sbaglio, il momento in cui io abbandonai le indagini e fui poi richiamata in causa. Ma la serie è interessante, ben documentata, onesta, accurata nei dettagli, rispettosa e non dà risposte forzate”. Alla domanda se di questo episodio si potrebbe parlare in una prossima serie, risponde: “Solo Sollima può dirle se ci saranno altre puntate”. 

Infine, un pensiero per chi ha ereditato il peso dell’inchiesta: “Non ho mai voluto suggestionare chi è venuto dopo di me. Tutti i colleghi che si sono occupati degli omicidi del Mostro lo hanno fatto con grande impegno e serietà. Nessuno può immaginare cosa volesse dire lavorare con i mezzi dell’epoca e sotto una pressione emotiva, carica di attese. La verità non l’abbiamo trovata, ed è un dolore che resta” 

E il Mostro? Per Della Monica, resta ancora un caso aperto. Ma non ha mai dubbi su un punto: “Gli omicidi del Mostro sono stati guidati da una brutale violenza di genere, da un odio palese verso le donne. E questo, il regista Stefano Sollima l’ha raccontato nel modo più giusto possibile”. (di Paolo Martini) 

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webinfo@adnkronos.com (Web Info)

Scritto da: News News

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