Radio K55
Data di pubblicazione: 19/10/2024 alle 09:12
Chi sta uccidendo i nostri giovani ?
Nella puntata della trasmissione di LA7 “La torre di Babele” del 14 ottobre condotta da Corrado Augias c’è stato un confronto sul tema del disagio giovanile in relazione all’uso degli Smart Phone e dei Social con Giovanni Floris come ospite. A questo indirizzo potete rivedere la trasmissione.
La puntata aveva per titolo “Chi sta uccidendo i nostri giovani ?” e la prima frase di Augias è stata: “Stasera ci occuperemo di un tema enorme, speriamo di venirne a capo”.
Un’apertura di campo decisamente drammatizzante, forse non senza motivo, ma vediamo come sono andate le cose.
La generazione ansiosa
Con Floris, Augias ha introdotto il tema citando un libro uscito nel corso di quest’anno dal titolo “La generazione ansiosa” dello psicologo statunitense Jonathan Haidt. Una pubblicazione che ha avuto molto spazio nei commenti dei quotidiani nazionali. In questo libro, Haidt espone la tesi che la generazione dello Smartphone, la Gen Z, è la prima ad aver subito una transizione da un’infanzia basata sul gioco a un’infanzia basata sul telefonino e sui social. Ciò ha interferito con lo sviluppo sociale e neurologico di bambini e adolescenti, causando ansia, privazione del sonno, frammentazione dell’attenzione, dipendenza, solitudine, paura del confronto sociale.
Ma Floris si è subito esposto come contrario a fare dei telefonini e in generale del progresso tecnologico una componente da demonizzare. Ha sostenuto che, storicamente, ogni svolta tecnologica importante ha comportato dei disagi di vario tipo verso i quali è servito tempo per prendere le misure. Portando a esempio il periodo storico in cui il benessere ha permesso la diffusione del motorino come mezzo di locomozione giovanile. Era allora del tutto normale guidare il motorino senza targa e senza casco. Il progresso ha così esposto a un rischio quella generazione, ma poi si è provveduto a educare gli utilizzatori e a normare la materia in modo da ricondurre questo rischio in una dimensione più accettabile.
Regolare o proibire ?
Quindi anche per gli SmartPhone, sostiene Floris, occorre proporre delle misure informative sui pericoli e delle norme d’uso che possano ricondurre il rischio entro certi limiti. Cosa sulla quale ha concordato anche Augias, mostrando un’intervista di una preside di un liceo torinese che aveva vietato l’uso degli Smartphone in classe, inclusi gli intervalli.
Floris, pur dichiarandosi sostanzialmente d’accordo con le iniziative adottate dalla scuola, ha però sostenuto che, se si finisce per adottare misure troppo radicali nel togliere lo Smart Phone, si ottiene di portare i ragazzi fuori da quel mondo che devono imparare ad abitare. Occorre invece trovare una strada per regolarne l’uso. Soprattutto per aiutare quei ragazzi che non ricevono sufficienti mezzi culturali dalla famiglia per apprendere a usare il telefonino senza danneggiarsi. La scuola, continua Floris, deve essere la sede di eccellenza in cui questo aiuto viene fornito ma, se i professori vengono pagati così poco come oggi, finiscono per essere considerati figure secondarie della società. Infatti, in un momento storico in cui il valore della persona viene grandemente commisurato ai suoi guadagni, accade che nessuno rispetta i professori proprio causa i loro bassi stipendi. Per primi sono i genitori e poi in conseguenza, anche i ragazzi.
Due modi diversi di valutare la modernità
Il dialogo si è sviluppato secondo degli indici di sostanziale concordanza dei punti di vista, ma Augias, pur con stile garbato e autoironico, ha però voluto dare alle parole di Floris un connotato forse più estremo di quello che avevano, come se Floris sottovalutasse grandemente il problema e prendendo quindi la distanza dalle sue opinioni.
E’ comprensibile. A confronto c’erano due generazione differenti. Augias nato nel 1935, Floris nel 1967. Una differenza che si è vista nelle diverse analisi dei due intellettuali. In particolare si è vista quando Augias ha detto quanto potete leggere di seguito o ascoltare l’audio, se preferite :
“la scuola è un luogo di lavoro. Quando tu vai a lavorare devi lavorare. Quindi, il telefonino con cui giochicchi sotto il banco… come noi facevamo con le figurine, intendiamoci… mentre quel disgraziato sulla cattedra si affanna a spiegarti che cos’è il congiuntivo optativo in latino, è un insulto alla funzione della scuola”.
16 October 2024 21:32:20 mind_master
Quando tu vai a lavorare devi lavorare.
Per comprendere bene questa affermazione e il tono in cui è stata espressa occorre prendere spunto da come era la scuola e il mondo del lavoro ai tempi di Augias. Un buon film che ce lo racconta è “Il Posto” di Ermanno Olmi che uscì nel 1961. Ovvero, proprio un anno dopo che Augias otteneva il suo primo impiego, assunto in Rai. Il film tratta del modo in cui la cultura di allora percepiva il rapporto tra il lavoro, il senso del dovere e il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita.
E’ un film crudo ma anche delicato nel descrivere, attraverso l’impiego di attori non professionisti, la storia di Domenico, un ragazzo, che si intreccia con quella di una ragazza. Entrambi sono alla ricerca del posto sicuro. Per entrambi, sistemarsi in un posto sicuro è un dovere verso le famiglie di origine, prima che verso se stessi.
Ermanno Olmi nacque poco prima di Augias, nel 1931. Wikipedia riporta alcune parole di Olmi:
Non si tratta solo di una storia individuale, ma della transizione epocale di un’intera società: «I miei primi film sono storie sulla povertà ma in cui c’è sempre un po’ della storia del nostro paese. Il passaggio dalle società contadine a quelle operaie, o da queste alla nuova borghesia. Nel “Posto“ lo si vede bene nella casa di Domenico, una cascina in cui non si lavora più la terra ed è diventata solo un dormitorio per gente che va a lavorare in fabbrica e in città. Tra poco in quelle stalle senza più animali avrebbero messo le Lambrette e le Seicento».
Nel film, Domenico, dopo dure selezioni e solo grazie alla morte di un impiegato, alla fine verrà assunto. L’ultima scena lo vede sistemarsi alla sua scrivania, in fondo ad uno stanzone con il rumore del ciclostile nelle orecchie, in mezzo ad altri colleghi indifferenti o addirittura ostili verso il nuovo arrivato. Il tutto in un clima di tristezza impiegatizia che presenta bene il rapporto con il dovere di quella generazione.
Il sacrificio di sé come legge interiorizzata
Nel 1960 non esisteva l’idea che il lavoro potesse piacere o almeno corrispondere alle proprie attitudini, se non ai propri interessi. Il lavoro era un dovere verso la propria famiglia di origine perché bisognava aiutarla. Poi, verso la società che era nel pieno dello sforzo di ricostruzione dopo i disastri e i lutti lasciati sul campo da due guerre mondiali e dalla fine delle ideologie del primo 900. Infine, c’era il dovere di procreare che non si poteva neanche mettere in discussione, perché la famiglia non era ancora sentita come un’opzione. I cambiamenti del ruolo della donna cominciavano appena a emergere alla visibilità nella coscienza pubblica.
Quella generazione si è buttata appassionatamente nel compito di ricostruire una società sulla base di una speranza di benessere, ma ha pagato un prezzo. Che è espresso inconsapevolmente nelle parole e nel tono usato da Augias. Quel senso del dovere così rigoroso e imprescindibile verso qualcosa che arrivava sempre prima dell’interesse individuale. Tutti lo percepivano e tutti lo rispettavano.
Il colmo è che, proprio grazie al raggiunto benessere, nei tempi successivi il sacrificio di sé si è gradualmente ribaltato in un disvalore.
Sacrificio… anche meno
Colmo dei colmi, sono stati gli stessi genitori, i boomer, così meritevoli per aver introdotto i figli nell’auspicata società del benessere, che non sono riusciti a trasmettere il valore della limitazione dell’interesse individuale a favore dell’interesse collettivo. Esclusivamente preoccupati che i loro figli entrassero nella società sulla cresta dell’onda competitiva che in quegli anni andava prendendo forma. Esclusivamente dediti a non far mancare loro nulla, hanno spinto sull’acceleratore degli stili di vita consumistici nel timore che i loro rampolli rimanessero indietro nella corsa al prestigio. Una dedizione che ha avuto una parte importante nella formazione dell’ideale del benessere individuale e del diritto a coltivare i propri desideri al di sopra di ogni valore collettivo.
Colmo dei colmi dei colmi, è proprio nella generazione di Augias che si annidano diversi esempi tra chi ha avuto un’importante influenza nel cambiare il clima culturale dell’Italia. Con l’effetto di trasformare la “generazione del sacrificio” in una caricatura di adulti che si è messa a scimmiottare gli atteggiamenti giovanili. Uno dei grandi imprenditori di quell’epoca, Silvio Berlusconi, nasce un anno dopo Augias e, grazie al suo intuito circa lo spirito dei tempi e alle sue doti comunicative, riesce a trasformare in consenso politico il principio “Sacrificio anche meno”. Oggi, grazie a Berlusconi, non è un peccato grave far le corna nelle foto di “classe” dei ministri degli esteri, sfottere a più riprese una rispettabile ministra del consiglio tedesco, occupare il tempo libero divertendosi con le giovani ragazze e mentire al parlamento allo stesso modo con cui i ragazzi mentono ai genitori, così come ci racconta il caso Ruby di cui ancora oggi non si sono spenti gli echi.
Ma in generale è tutto il mondo degli adulti che negli ultimi decenni finisce per essere catturato in una rete di giovanilismi anacronistici. Questo è un vero fenomeno culturale originale e originario tanto quanto la dipendenza da smartphone.
Una dipendenza poi, che non è solo esclusiva della generazione Z. Floris cita il caso dei social per mostrare come ogni qualvolta un nuovo social veniva eletto a luogo di scambio privilegiato delle culture giovanili, FB nasce nel mondo universitario, immediatamente gli adulti se ne sono appropriati. Da Facebook migrare su Whatsapp, poi su Instagram, poi su TIkTOk o su Threads, non è servito a quelle culture, perché subito dopo sono arrivati anche i loro genitori.
Ma ora torniamo al luogo di eccellenza per il confronto tra le generazioni, la scuola.
Un insulto alla funzione di quale scuola ?
Di quale scuola parla Augias quando dice che giochicchiare con il telefonino è un insulto alla funzione della scuola? Di quella che ricorda lui, che non è quella attuale. La considerazione di Augias, nel tono perentorio in cui è stata espressa, ha senso nel contesto della trasmissione, ma se proposta ai ragazzi contemporanei non verrebbe minimamente presa in considerazione. E’ un tipo di linguaggio che non è in grado di suscitare nessun interesse e nessuna riflessione. Una sorta di rumore di fondo prodotto dal brontolio delle vecchie generazioni a cui i ragazzi sono così abituati che imparano a sopprimerlo già a livello senso-percettivo. I loro neuroni funzionano un po’ come le cuffie supertecnologiche che indossano, capaci di cancellare i rumori ambientali indesiderati. Ciò dà la misura di quanto sono distanti anni luce i linguaggi utilizzati dai nati dopo il 2000 e chi è cresciuto nel boom economico e anni successivi. Il ciclo di studi di scuola superiore, il liceo, dovrebbe essere il luogo per eccellenza in cui il pensiero giovanile si arricchisce del confronto con il pensiero adulto e viceversa. Ma oggi accade spesso che viene raccontato come il luogo del “non incontro” per eccellenza tra nuove e vecchie generazioni.
Guardie e ladri
Per qualche motivo, accade spesso che i professori, di fronte al disinteresse dei ragazzi per il modo in cui vengono presentati loro i doveri scolastici, li trattino come dei bambini da colpevolizzare e sanzionare. Così i ragazzi si adeguano a questo gioco di “guardie e ladri” applicandosi ad aggirare i vincoli loro posti. È vero che molti loro comportamenti sono infantili ma questa é proprio la natura dell’adolescenza, che mette insieme potenzialità adulte con tratti infantili. Se gli adulti però vedono nel ragazzo solo l’infante, a quello rimane da rispondere come perfetto infante.
Ciò che invece si apprende molto bene durante il ciclo di studi superiore, nei casi meno felici, sono le tecniche dell’inganno e dello sfuggimento, in quel gioco di rimpiattino che nasce tra professori e studenti. Ma anche le situazioni collusive che tanta parte hanno nelle relazioni adulte. Quante volte accade che alcuni professori riconoscono questo gioco di finzioni reciproche ma non lo affrontano. Perché non è il loro compito, perché sono pagati poco, perché vengono maltrattati da tutti come sostiene Floris. Dal loro punto di vista hanno ragione. La scuola, in certi casi, è talmente in difficoltà che deve venire incontro ai ragazzi più problematici promuovendoli anche se non andavano promossi, per disfarsene.
Ma ci sono anche altri modi di fare scuola.
Il liceo, in troppi casi diventa un tempo sospeso, un parcheggio per giovani in attesa della maturità. Dopo, comincia la vita vera. Per molti sarà solo il tempo degli studi universitari a decidere chi tra loro riuscirà a scoprire tutto ciò che non si è compiuto con la pretesa maturità. Ovvero, la rivelazione delle proprie motivazioni esplorative e conoscitive verso il mondo, intensamente presenti allo stato potenziale in tutti gli umani. E la conseguente scoperta dei propri interessi e dei propri talenti rimasti sepolti dietro un banco liceale per 5 anni. Per molti di loro il liceo è stato attraversato come in sogno, o in alcuni casi, come in un incubo.
Ma già oggi si stanno diffondendo modelli di apprendimento che sono in grado di rispondere al fatto che gli studenti del terzo millennio sono cambiati. Sono ragazzi con caratteristiche cognitive molto differenti rispetto a quelli del secolo precedente, perché hanno abitato in un mondo molto diverso, a partire dalle diversità dei loro stessi genitori. Se hanno perso in qualche attitudine hanno però guadagnato in qualche altra. Quindi, non possono più essere formati con lo stesso modello di lezioni frontali che andava bene per il passato.
Cooperative Learning
Per questo motivo, ci sono nazioni dove si stanno diffondendo modelli di apprendimento cooperativo, nella High School: Stati Uniti, Svezia, Germania e Australia, per esempio. Questi modelli si basano sul principio della “peer education”, ovvero della formazione che scaturisce dalle interazioni tra studenti che lavorano in modo cooperativo su un tema assegnato dal professore. E che presentano poi la lezione sul tema agli altri gruppi di studenti, che intanto avranno elaborato altri temi.
In questo modello, il ruolo del professore cambia radicalmente rispetto alla modalità tradizionale di insegnamento frontale. Invece di essere la principale fonte di conoscenza e il centro dell’attenzione, il docente assume il ruolo di facilitatore o mediatore. Questo significa che guida e supporta gli studenti, li aiuta a organizzare il lavoro di gruppo e fornisce strumenti per la loro cooperazione, ma non si limita più a impartire lezioni in maniera unidirezionale.
Per fare funzionare questo modello i professori devono essere formati appositamente e dotati di conoscenze anche psicologiche. Infatti, il modo in cui vengono formati e gestiti i gruppi degli studenti richiede competenze su diversi ambiti di psicologia evolutiva e di psicologia dei gruppi.
Neuroarchitettura e altro.
La Neuroarchitettura è una scienza che nasce circa 25 anni fa quando il neuroscienziato Fred Gage scopre che il cervello e i nostri comportamenti sono influenzati a livello biochimico dall’ambiente in cui ci troviamo. Si comincia così a studiare come cognizione ed emozioni vengono influenzate dal modo in cui gli ambienti vengono posizionati, allestiti ed abitati.
Nella classe tradizionale, il punto focale è la cattedra o la lavagna, da cui l’insegnante tiene la lezione. Nelle aule cooperative, non c’è un punto focale fisso: lo spazio è progettato in modo che le attività possano avvenire in diverse zone della classe, con più focus di attenzione. Ecco due immagini che rappresentano le differenze tra le due soluzioni.
Ma non solo neuroarchitettura. Gli psicologi che hanno studiato il fenomeno ubiquitario delle occupazioni della scuola da parte degli studenti, hanno messo in luce che vandalismo e aggressività diminuirebbero se nella scuola ci fossero spazi loro stabilmente dedicati. Delle aule liberamente accessibili, che i ragazzi potrebbero autonomamente attrezzare e arredare come laboratori per attività ludiche, artistiche o formative, renderebbero inutile il fenomeno delle Occupazioni scolastiche. Questa parziale appropriazione di spazi permetterebbe di percepire l’istituzione scolastica non esclusivamente come il luogo del pensiero adulto. Ma un luogo che renderebbe possibile l’incontro tra culture appartenenti a tempi differenti dell’evoluzione di un essere umano. Ognuna con le sue caratteristiche, ognuna con i suoi valori.
Ah già …i telefonini.
Insomma, bisogna investire a vari livelli nella scuola se i terrestri vogliono veramente occuparsi del disagio giovanile, altrimenti, forse, è meglio che smettano di dire che vogliono occuparsene.
Ma torniamo ai nostri cari smartphone. Alla fine cosa si è deciso di fare ? proibire o regolare ?
In attesa di una decisione ultimativa il futuro ce lo additano ancora una volta le nuove generazioni. E’ solo di un mese fa la notizia che un sondaggio del NewYorkTimes ha rivelato che, quasi la metà tra i ragazzi della generazione Z interrogati, non vuole che i propri figli abbiano uno smartphone prima di aver raggiunto l’età della scuola superiore, i 14 anni. In netta controtendenza con quello che hanno fatto i loro genitori.
Forse, un modo per venire a capo del tema enorme di cui parlava Augias c’è. Umani, non perdete la speranza!
Buon Universo a Tutti.
Written by: mind_master
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