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Dall’algoritmo alla Foresta Oscura

today05/05/2024 50

Background
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Nell’ultimo numero di Rivista Studio che abbiamo già usato per riflettere sulla generazione Zeta nello scorso articolo Il naso degli umani pende a destra… c’è un altro interessante spunto di riflessione.

In un altro articolo della suddetta rivista si riporta infatti la tesi che l’algoritmo abbia ammazzato internet già nel 2016. In realtà questa affermazione non è dell’autore dell’articolo ma fa parte di una teoria del complotto nata circa nel 2020 e che si chiama Dead Internet Theory, la teoria della morte di Internet. Intesa come morte del luogo dove promuovere un’informazione libera. Pur volendoci liberare delle derive del pensiero persecutorio e paranoico che ogni teoria complottista per sua natura porta con sé, almeno in una certa misura, anche così rimane qualcosa da riflettere.

Bot che passione !

Questa teoria nacque a valle della pubblicazione di una ricerca di un’azienda di cybersecurity americana. Secondo questa ricerca, racconta l’articolo di RS, il traffico web generato dai bot nel 2016 ha superato per la prima volta il traffico generato dagli esseri umani. Bot è un’abbreviazione di robòt. Viene usato per indicare quei programmi che si sostituiscono al personale di servizio di aziende o enti nel dialogare via web con gli utenti facendo credere di comunicare con un’altra persona umana. 

Dopo il 2016 abbiamo assistito al fenomeno dell’esplosione dell’Intelligenza Artificiale Generativa (ChatGPT 4 e simili). Un fenomeno che rende molto più facile la creazione di testi, foto e video che somigliano a quelli umani a tal punto che diventa ormai quasi impossibile distinguere se stai dialogando con una persona o con un programma. Abbiamo già diffusamente parlato di questo nell’articolo L’immortalità di Misery.

Dopo il 2016 seguirono molti altri articoli che misero in luce non solo questa capacità di mimesi dell’automa dietro apparenze umane, ma soprattutto si cominciò a discutere di un’altra caratteristica degli algoritmi con cui i programmi attuali, potenziati dall’Intelligenza artificiale, selezionano i prodotti culturali da presentare su internet. 

Il pericolo di una cultura piatta

Dal momento che l’algoritmo utilizzato nei programmi che rispondono alle richieste degli internauti viene costruito con una finalità univoca agganciata rigidamente al servizio o alla merce che si vuole proporre all’utente, anche i prodotti culturali da proporre vengono selezionati in ragione della loro possibile mercificazione, o vendibilità, sia materiale se si tratta di un libro, che virtuale se si tratta di un testo di un blog. Ovvero, il criterio di selezione dell’algoritmo dei prodotti culturali da presentare è costruito per massimizzare la probabilità di vendita del prodotto culturale e della pubblicità correlata all’uso delle pagine web che lo presentano. 

Quindi, il mondo che si presenta all’utente internet non corrisponde al mondo della creatività culturale umana nel senso più ampio ma solo a quello di un suo sottoinsieme ben specifico. 

Francesco Gerardi, l’autore dell’articolo di RS afferma:

si parla di appiattimento della cultura: l’efficienza matematica con la quale l’algoritmo sa ridurre ogni prodotto culturale al minimo comune denominatore che lo rende merce. Ogni canzone ai 20 secondi che sono necessari per un TikTok, ogni film al minuto che serve per un trailer da condividere via YouTube, ogni libro alla copertina che meglio si adatta al formato post di Instagram”.

L’algoritmo assassino si nasconde nelle case degli umani

L’articolo prosegue sottolineando che un creatore di musica se vuole guadagnare dalla sua attività al punto da farla diventare un vero mestiere deve sperare di diventare virale su tikTok.

Se ricordate ne abbiamo già parlato nell’articolo The song remains the same.

Addirittura i designer di architettura d’interni devono adeguarsi alle aspettative estetiche create dall’algoritmo come fa notare l’articolo del Guardian del 24 Gennaio scorso dal titolo “La tirannia dell’algoritmo” che trovate qui. In questo articolo si commenta il fatto che gli Hipster Coffe Shop nel mondo si somigliano tutti, così come già i ristoranti McDonald’s.

Interessante citare pure un caso di preferenza della cultura algoritmica fuori dal mondo internet. Una nota squadra di calcio di Milano circa un anno fa ha deciso di rinnovare il proprio quadro dirigenziale, rinunciando a due dirigenti dotati di esperienza calcistica vissuta per rimpiazzarli con dirigenti esperti di vendita di prodotti di spettacoli sportivi e soprattutto convinti sostenitori di strumenti algoritmici. Su Wired del giugno 2023 trovate l’articolo che ne parla dal titolo “Davvero il Milan vuole sostituire Paolo Maldini con l’algoritmo di Moneyball?”

 Ma leggiamo ancora Gerardi:

Non più l’intelligenza artificiale che intrappola l’umanità in un mondo fittizio fatto a immagine e somiglianza di quello reale, ma la finzione digitale che piano piano “cola” nella realtà materiale, annegandola, inabissandola, sostituendola.

Matrix insegna

Vi ricordate Neo? E’ il protagonista del film Matrix del 1999. Quello della pillola rossa o della pillola blu. Vi ricordate quando si risveglia da una sorta di incubo dove gli umani sono diventati schiavi dell’intelligenza artificiale che si alimenta della loro energia biologica ? Nemesi, tra l’altro, delle stesse violenze umane quando allevano in serie, in ambienti impossibili, animali intelligenti per “trasformarli” nella “propria” energia biologica. 

Matrix fu un film di grande successo che cercò di immaginare i pericoli che si stavano delineando per la crescita di potere vertiginosa della tecnologia applicata alla comunicazione e all’informazione. Ma la fantasia dei terresti in Matrix non ha colto che il pericolo non è quello della rivolta bolscevica dell’Intelligenza artificiale verso gli uomini, come il film racconta, ma quello della finzione digitale che cola sulla realtà come scrive Gerardi. Il robòt cimice che viene innestato nel corpo di Neo per controllarne le sue mosse non è il vero pericolo di oggi. Basta qualcosa di molto meno violento ma altrettanto efficace. Ad esempio, la profilazione dei gusti di consumo che grazie al web viene fatta da tutte le tecnologie che entrano in una casa. Dal cellulare alla televisione, dagli assistenti vocali, per finire nelle basi dati mondiali dei famosi Big Data. Ovvero, dei dati non della persona, di cui frega nulla, ma del profilo di consumatore di tutti i membri della famiglia nella casa in cui questi strumenti funzionano. Qui entra in scena l’algoritmo che analizzando l’enorme base di questi dati apprende a “ritagliare” il mondo web sul profilo di quei consumatori. Dal libro “Algoritmi. Il software culturale che regge le nostre vite” del 2017 di Mario Pireddu, Professore all’Università della Tuscia, leggiamo:

«Sempre più le nostre azioni vengono registrate da centinaia di software che alimentano banche dati in continua crescita. Quando facciamo qualcosa online, lasciamo sempre una traccia.

Siamo nel campo del machine learning, ovvero dei sistemi di apprendimento automatizzati basati su algoritmi e modelli matematici complessi che processano in tempi rapidi quantità di dati non gestibili da operatori umani»

(il data base) sarebbe quindi una vera e propria forma culturale in grado di plasmare le memorie individuali e collettive e di gestire indifferentemente informazioni, documenti, oggetti, relazioni ed esperienze. »

Il consumatore culturale sul web

Il risultato è che ogni essere umano viene preso in mezzo da due spinte figurativamente perpendicolari. Una spinta orizzontale, nell’istante vissuto su Internet. Che gli disegna intorno un universo composto di prodotti culturali massificati secondo i criteri dell’algoritmo. Appiattiti come dice Gerardi, nei cui limiti il soggetto deve compiere, apparentemente, le sole scelte possibili.

Poi, una spinta verticale sull’asse del tempo, che prende in considerazione solo la sua individualità sulla base di tutti i suoi comportamenti storici sul web. Cioè, tutte le scelte di pagine visitate, di like e di acquisti da queste effettuati. 

Da questo tracciamento ortogonale si presenta al soggetto un mondo di stimoli culturali a bassa creatività ed originalità. In quanto si ripercorre solo il già vissuto, implicito negli stereotipi collettivi oppure nel comportamento storico della persona. Un mondo selezionato per minimizzare le spinte innovative. Ma tutto ciò non nasce certamente né con il web né con l’Intelligenza artificiale. Caso mai da questi viene solo amplificato nel verso dell’efficienza tecnologica. Infatti, la tendenza dei media a esaltare i contenuti stereotipati a danno di quelli più innovativi comincia ad essere riflettuta già intorno alla metà del secolo scorso.

Apocalittici e Integrati 60 anni dopo

Abbiamo già citato nell’articolo dedicato alla Street Art il testo “Dialettica dell’Illuminismo” del 1947. Secondo gli autori, Adorno e Horkheimer, l’industria culturale tende a uniformare il pensiero e la sensibilità del pubblico, a generare passività e alienazione, e a produrre una cultura di consumo e spettacolo che impedisce la vera emancipazione dell’individuo.

Ma nel 1964, comparve il testo “Apocalittici e Integrati” composto da diversi saggi, a cura del semiologo Umberto Eco. Nei circoli intellettuali si parlava a quel tempo di cultura di massa in termini dispregiativi. Un’anti-cultura, simbolo della volgarità della folla. La causa della popolarizzazione della cultura, fino ad allora considerata un bene aristocratico, era stata individuata nella comparsa dei nuovi mezzi di comunicazione: la televisione, il giornale, la radio, il cinema, il fumetto, il romanzo popolare. Una visione apocalittica insomma. Ma Umberto Eco, dopo aver elencato vantaggi e svantaggi della diffusione su larga scala dei prodotti culturali, sostanzialmente si schiera tra gli “integrati”, sostenendo che l’industria culturale di per sé non è un male, caso mai lo è il consumismo. Questo potrebbe essere il punto chiave da riflettere nel 2024: Liberare la diffusione di cultura dalla garrota del consumismo che la soffoca. La notizia di oggi è questa: la liberazione sta già avvenendo solo che i terrestri non se ne sono ancora accorti perché è solo agli inizi. Ora possiamo chiederci cos’è quello strano e recente fenomeno chiamato “Creator Economy”.

La liberalizzazione dei fenomeni creativi

Il progresso tecnologico non ha portato solo complicazioni e minacce ma anche grandissime opportunità di arricchimento proprio da un punto di vista culturale. Ogni essere umano che nasce oggi ha una possibilità immensa di accedere al condensato degli sforzi dell’intelligenza umana proprio attraverso il web. Andate a vedere, per esempio, su YouTube, i video che spiegano cos’è la teoria della relatività di Einstein. Oppure la spiegazione del perché i Buchi Neri evaporano. Sono temi una volta accessibili a pochi umani estremamente colti nelle discipline di riferimento. Oggi questi video sono molto efficaci per spiegare argomenti così lontani dal pensare comune e vengono usati al liceo dai professori con grande interesse dei ragazzi.

Una ricerca condotta da Adobe che trovate a questo indirizzo fornisce una visione completa della Creator economy a livello globale che vede oggi 303 milioni di Creator digitali appartenenti alle generazione dei Millennial e alla GenZ. Si tratta di professionisti e non professionisti che creano contenuti originali per lavoro o per passione. Scrittori, fotografi, illustratori, filmmaker, designer. Creativi di ogni tipo trovano spazio per esprimersi online, anche sui social.

Per la prima volta una generazione di umani può produrre contenuti in modo completamente autonomo. Il progresso tecnologico ha reso disponibile l’accesso a strumenti per produrre, in economia, testi foto e video. Per editarli e pubblicarli online. Si tratta di una delle cose più incredibili accadute nell’ambito della comunicazione umana. 

Ma si potrebbe obiettare che anche loro sono soggetti alla legge dell’algoritmo la quale seleziona e appiattisce ogni contenuto culturale. Vero, ma solo in parte. 

Il cozy web salverà il mondo dallo strapotere dell’algoritmo ?

Infatti, contemporaneamente all’ascesa della Content Economy, assistiamo ad un fenomeno di creazione di comunità protette, di spazi e pratiche che attivano una socialità alternativa a quella delle piattaforme mainstream. Nel loro insieme costituiscono il Cozy Web, che, in un’interpretazione estremizzata dal punto di vista della privacy, è conosciuto anche come “Foresta Oscura”. Proprio da una di queste Newsletter del Cozy Web riportiamo un pezzo tratto da un articolo di Priscilla De Pace che si intitola “La foresta oscura del Web”:

La foresta oscura del web è lo spazio spontaneo e indulgente dei podcast e delle newsletter, dei profili anonimi e delle chat private, dei social network di nicchia e di tutti quegli spazi protetti dall’indicizzazione, dall’ottimizzazione e dalla ludicizzazione che caratterizzano invece le principali piattaforme big tech fatte di brand, influencer e tendenze. 

La foresta oscura è una terra di mezzo che si pone tra le piattaforme mainstream e l’internet anonimo del Darknet, continua l’articolo. Ovvero, un luogo dove costruire nuove comunità e significati condivisi fuori dalla logica consumistica perché anche se alcuni prodotti culturali vengono qui commercializzati, questa pratica non fa sì che il consumo diventi il collante sociale tra domanda di cultura e offerta. 

Il riscatto della generazione Z

Si creano così comunità online chiuse, utilizzando app per sostenere forum anonimi e conversazioni private. Sono luoghi che producono cultura alternativa perché esclusi sia dalla giostra dei consumi che dal potere degli algoritmi. Dove quindi è possibile far circolare un pensiero critico e spinte autenticamente creative perché la produzione culturale non è selezionata dagli algoritmi.

Occorre qui sottolineare che, dopo aver tanto parlato negli articoli precedenti della Generazione Z alle prese con l’ansia e la noia, è proprio questa generazione quella più attenta a ricercare posti nella Foresta Oscura dove proteggere la privacy, dove ridurre la “online footprint”, l’impronta del nostro passaggio sul web, a costo anche di cancellare i propri account dai social media. Basti pensare che secondo un osservatorio americano le app di incontri tanto popolari tra i giovani registrano il 61% di Millennial ma solo il 26% di Gen Z. 

Un ultima cosa. Nel Cozy Web aggiungerei anche alcune radio streaming, come RadioK55 ad esempio. Perché si tratta di content creator multimediali in cui non è centrale lo scopo di lucro ma la passione per la cultura, musicale certo, ma non solo. I contenuti non vengono pensati sulla base del posizionamento nei motori di ricerca ma sul piacere di trasmettere cultura. 

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Buon Universo a Tutti !

 

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Written by: mind_master

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